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Proteggere l’innovazione o il mercato? Il dilemma giuridico della proprietà intellettuale

Aggiornamento: 12 ago

1. Genesi storica e sviluppo del conflitto tra proprietà intellettuale e diritto antitrust

Il rapporto tra tutela della proprietà intellettuale e tutela della concorrenza è fondamentale per l’architettura  del commercio e dell’intera economia moderna e globale. Le due branche del diritto, in linea di principio, sembrerebbero seguire finalità convergenti: entrambe, infatti, mirerebbero a promuovere l’innovazione e la crescita competitiva del mercato. Con un’analisi più attenta delle due materie, tuttavia, si evince chiaramente come vi sia una divergenza strutturale che affonda le sue radici nella logica stessa dei due sistemi. «Inutile negare che proprietà intellettuale e antitrust sono agli antipodi, proprio perché la logica sottesa alla prima è ciò che la seconda è deputata a combattere», scrivono M. Granieri e R. Pardolesi nell’opera «Di regolazione, antitrust e diritti di proprietà intellettuale». La proprietà intellettuale, infatti, garantisce un’esclusiva — e quindi, di fatto, un monopolio — mentre il diritto antitrust mira a tutelare la pluralità degli attori e a impedire concentrazioni eccessive di potere.

Nel mondo digitale, il rapporto tra proprietà intellettuale e concorrenza non è più una materia per specialisti, e per gli altri trascurabile: è diventato un nodo nevralgico dell’intero impianto economico. Le privative — brevetti, marchi, copyright, segreti industriali — nascono per premiare chi innova, offrendo una protezione temporanea che stimola la creazione. Quando si sommano, tuttavia, a un monopolio sostanziale su interfacce, dati o infrastrutture digitali, questi strumenti possono diventare una barriera d’accesso, ostacolando la libera concorrenza nel mercato. Non si tratta, dunque, di mettere in discussione il principio della protezione dell'ingegno, ma di interrogarsi su come esso si traduca nella pratica, soprattutto in mercati ad alto tasso di innovazione.

L’antitrust interviene proprio nei casi in cui la proprietà intellettuale smette di essere un incentivo e si trasforma in una forma di monopolio strutturale. All’inizio del Novecento, in particolare negli Stati Uniti, si tendeva a considerare i diritti IP come intangibili, quasi una proiezione della libertà d’impresa. L’intervento antitrust era cauto, spesso assente. Nel secondo dopoguerra, tuttavia, con la crescente complessità dei mercati, questo assetto inizia a scricchiolare: anche un diritto pienamente legittimo può produrre effetti distorsivi della concorrenza.

Una prima crepa nel sistema giunge con la sentenza Magill del 1995, con cui la CGUE apre alla possibilità di sindacare l’uso distorto di un diritto esclusivo. Vengono poi i casi IMS Health e Microsoft, che chiariscono un principio nuovo: in certi contesti può essere richiesto l’accesso a risorse protette. La direzione è segnata, e sarà approfondita infra, nel prosieguo dell’analisi. Lo stesso vale per i casi più recenti, come quello tra Slack e Microsoft: la posta in gioco non è più il brevetto in sé, ma l’ambiente digitale che quel diritto contribuisce a modellare. Standard, interfacce, interoperabilità: l’innovazione rischia di restare imbrigliata proprio nei meccanismi che dovrebbero proteggerla. In un contesto in cui l’accesso alla conoscenza è il primo fattore di sviluppo, parlare di proprietà intellettuale senza concorrenza significa svuotarne il senso.  Perché la concorrenza non è la nemica della proprietà: ne è, semmai, il custode di legittimità. È solo nel confronto tra più idee, più offerte, più interpretazioni che il diritto di esclusiva acquista significato; altrimenti, non è proprietà, è monopolio.

 

 

2. Le nuove tecnologie come fattore esponenziale del conflitto

Il conflitto tra esclusiva e accesso all’innovazione, da tema classico del diritto industriale, si è trasformato in una questione strutturale dell’economia digitale. Oggi non basta più guardare al singolo brevetto o diritto d’autore: sono le infrastrutture cognitive — dati, interfacce, standard — a definire il nuovo terreno di scontro. E in questi ambiti, chi possiede una risorsa chiave può escludere interi segmenti di mercato, anche senza violare formalmente alcuna regola. Ciò appare logico pensando all’accresciuta importanza dei beni immateriali, il che porta, come diretta conseguenza, alla ricerca di una tutela di questo vantaggio competitivo. La tensione si gioca allora in modo più sottile. Non si tratta solo di rifiutare una licenza: anche una concessione discriminatoria, una clausola ambigua o un accordo opaco possono bloccare l’ingresso di concorrenti. In mercati dove l’accesso dipende dalla compatibilità, il potere non risiede più solo nella titolarità del diritto, ma nella capacità di controllarne le condizioni d’uso.

Le tecnologie digitali accentuano questo rischio: ogni nodo critico, ogni snodo infrastrutturale, diventa un potenziale punto di esclusione. Vent’anni di privativa, in ambiti dove l’innovazione avanza a ritmi rapidissimi, rischiano di cristallizzare assetti già dominanti, dove anche il tempo diventa un vincolo competitivo.

In questo scenario, il diritto della concorrenza è chiamato a cambiare passo e ad adeguarsi a fenomeni economici impensabili in passato, tanto per natura quanto per impatto globale. Non può più limitarsi a correggere gli abusi a posteriori: deve prevenire, orientare, costruire le condizioni perché l’innovazione sia davvero contendibile. Interoperabilità, trasparenza, licenze eque: non sono più principi ausiliari, ma cardini di un mercato aperto.

 

 

3. Inquadramento legale: trasferimenti tecnologici e rifiuto di licenza

Quando le dinamiche economiche si fanno complesse, il diritto deve passare dalla teoria all’azione. E oggi, il vero banco di prova è operativo: fino a che punto si può esercitare un diritto esclusivo senza precludere l’accesso al mercato, alla concorrenza e all’innovazione sostenibile? I diritti IP restano strumenti fondamentali per premiare l’innovazione; ma, se impiegati in contesti segnati da forti squilibri di potere, possono diventare leve per escludere la concorrenza. In questo contesto, l’antitrust entra in gioco non per negare la legittimità delle privative, ma per evitare che diventino strumenti di controllo sistemico, capaci di alterare gli equilibri concorrenziali. Due le situazioni più critiche: la prima riguarda gli accordi di trasferimento tecnologico. Nati per favorire la diffusione di conoscenze, possono nascondere clausole che limitano l’uso di tecnologie alternative o vincolano le imprese a non competere. Quando una delle parti ha una posizione dominante, queste condizioni rischiano di irrigidire il mercato. Il Regolamento 316/2014 della Commissione e le relative Linee guida indicano le soglie di compatibilità con il diritto della concorrenza. La seconda situazione è quella, più visibile, del rifiuto di concedere una licenza. Se la tecnologia coperta è essenziale, il diniego può bloccare interi settori. In queste circostanze, il potere reale non deriva solo dal diritto in sé, ma dal suo esercizio all’interno di un’infrastruttura chiusa. Ciò avviene nel caso delle Application Programming Interface (API): un insieme di regole e protocolli che permettono a diverse applicazioni software di comunicare e interagire tra loro.

Il rischio concorrenziale non si limita a ciò che è detto apertamente: spesso si nasconde nelle condizioni di accesso, nella selettività delle concessioni, nella costruzione di ecosistemi che, pur legali sulla carta, escludono nella sostanza.

Per affrontare queste dinamiche, il Digital Markets Act, nel 2022, ha introdotto nuovi obblighi per le piattaforme che occupano posizioni centrali: interoperabilità, accesso equo, trasparenza. In parallelo, le autorità europee monitorano con attenzione settori emergenti come l’intelligenza artificiale, i modelli linguistici, le banche dati: ciò che oggi sembra un dettaglio tecnico può diventare, domani, una nuova forma di concentrazione.

 


4. Esistenza ed esercizio: una frattura ricomposta dalla giurisprudenza europea

Al cuore della riflessione sul rapporto tra concorrenza e proprietà intellettuale si trova una distinzione tanto sottile quanto cruciale: quella tra la titolarità del diritto e il modo in cui quel diritto viene esercitato. Per molto tempo, soprattutto nel secolo scorso, si è ritenuto che la semplice esistenza di un diritto esclusivo bastasse a legittimarne qualsiasi utilizzo. In altre parole, ciò che era protetto — un’invenzione, un’opera, un algoritmo — era anche, per definizione, insindacabile. Questa visione si fondava sulla cosiddetta teoria dell’oggetto specifico del diritto: l’antitrust poteva intervenire solo quando la condotta dell’impresa tradiva le finalità proprie della privativa, come la promozione della creatività o la giusta remunerazione dell’inventiva.

Tuttavia, questa impostazione ha iniziato a incrinarsi con la citata sentenza Magill del 1995, citata supra. In quel caso, i titolari dei diritti d’autore sui palinsesti televisivi settimanali si erano rifiutati di concedere le informazioni necessarie per creare una guida unificata. La Corte di giustizia riconobbe che, pur in presenza di un diritto legittimo, il rifiuto poteva costituire abuso di posizione dominante. Quando una risorsa è indispensabile, quando blocca la nascita di un prodotto innovativo per cui c’è una domanda reale, e quando il diniego non è giustificato da ragioni oggettive, il diritto smette di essere intoccabile.

Dalla citata sentenza prende forma una novità di rilievo: l’applicazione, anche in ambito europeo, della Essential Facility Doctrine alle privative intellettuali, con importanti implicazioni pratiche e sistematiche. La Essential Facility Doctrine è una teoria giuridica nata nella giurisprudenza antitrust statunitense tra gli anni ’70 e ’80, secondo cui un’impresa in posizione dominante che detiene il controllo esclusivo di una risorsa essenziale per competere (la essential facility) ha l’obbligo di concedere accesso a tale risorsa ai concorrenti, qualora il rifiuto risulti ingiustificato e idoneo a escluderli dal mercato.

 


5. Slack v. Microsoft: un caso emblematico nell’economia delle piattaforme

Una delle applicazioni più significative dei principi fin qui richiamati si è avuta con la denuncia presentata nel 2020 dai legali della piattaforma Slack contro Microsoft. Al centro della controversia, l’integrazione automatica di Teams all’interno del pacchetto Microsoft 365: secondo Slack, una strategia mirata a rafforzare artificialmente la posizione dominante di Teams, rendendolo difficile da rimuovere e poco compatibile con alternative concorrenti. La questione non era solo la preinstallazione, ma la scarsa interoperabilità tecnica che penalizzava chi provava a proporre soluzioni diverse. Dopo tre anni di indagine, la Commissione europea ha formalizzato nel 2023 una comunicazione di addebiti, vale a dire l’atto formale con cui la Commissione contesta presunte violazioni del diritto della concorrenza, consentendo alle imprese di esercitare il proprio diritto di difesa.

Secondo Bruxelles, Microsoft «potrebbe aver conferito a Teams un vantaggio distributivo, non lasciando agli utenti la libertà di scelta» e avrebbe aggravato questa posizione con limitazioni di interoperabilità ai danni dei software rivali. Pur avendo Microsoft annunciato alcune contromisure — separare Teams da Office e migliorare le integrazioni — la Commissione ha ritenuto che non fossero sufficienti a correggere gli effetti distorsivi già innescati.

Sotto il profilo giuridico, il caso conferma tre assunti centrali. In primo luogo, l’integrazione forzata di un prodotto secondario può costituire abuso se priva di giustificazioni oggettive; in secundis, nei mercati digitali, l’interoperabilità non è una questione tecnica, ma un elemento fondante della contendibilità. Infine, quando il potere si esercita attraverso l’architettura dei sistemi, serve un intervento regolativo capace di agire prima che il danno diventi irreversibile. In questi casi, non bastano sanzioni: servono rimedi strutturali, che tocchino la configurazione stessa del mercato.

 

 

6. La ricerca di un nuovo equilibrio tra proprietà intellettuale e concorrenza nei mercati digitali

Nell’economia digitale contemporanea, tutela della proprietà intellettuale e garanzia della concorrenza non possono essere considerati come compartimenti stagni. Si tratta, piuttosto, di una tensione fisiologica e strutturale, che attraversa il diritto dei mercati e ne orienta l’evoluzione. I diritti di esclusiva, pur legittimi e necessari per incentivare l’innovazione, non possono essere considerati posizioni giuridiche assolute, impermeabili agli effetti sistemici che il loro esercizio può produrre. L’esperienza giurisprudenziale europea, dal caso Magill a Microsoft, ha chiarito che il diritto a proteggere l’innovazione non legittima l’ostacolo all’innovazione successiva, né giustifica condotte formalmente legali ma sostanzialmente escludenti.

In questo quadro, l’antitrust non si oppone alla proprietà intellettuale: ne riequilibra l’impatto quando essa viene esercitata in contesti di concentrazione infrastrutturale, definizione unilaterale degli standard o asimmetria nell’accesso alle risorse. L’applicazione della menzionata Essential Facility Doctrine segna un punto di svolta: la proprietà intellettuale non perde legittimità, ma viene reinquadrata come istituto che, per creare valore collettivo, deve confrontarsi con la contendibilità del mercato.

La vera sfida è ripensare il rapporto tra questi due ambiti alla luce del nuovo potere economico digitale: il rischio non è più quello di conflitto tra norme, ma di trasformare la tutela dell’ingegno in uno strumento di cristallizzazione tecnologica. Per evitarlo, il diritto deve operare non solo ex post, ma già in fase regolativa, promuovendo un ambiente competitivo aperto, trasparente e pluralistico: interoperabilità, neutralità infrastrutturale, licenze eque e accesso non discriminatorio non sono più variabili accessorie, ma condizioni essenziali della concorrenza.

In definitiva, l’innovazione non può fiorire in ambienti chiusi. E la proprietà intellettuale, se desidera mantenere un ruolo propulsivo, deve sapersi integrare in un ecosistema dove la creatività individuale dialoghi con l’interesse collettivo. In un’economia fondata sulla conoscenza, la concorrenza non è solo una regola: è il fondamento stesso di un’innovazione accessibile, aperta e sostenibile.

 

 

 


Bibliografia

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