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La successione nel patrimonio digitale: profili giuridici e casi giurisprudenziali

Immagine del redattore: RedazioneRedazione

Di Vanessa Maria Cunico e Francesco Botti



1. Il patrimonio digitale

Per comprendere al meglio le delicate questioni che interessano la gestione del patrimonio digitale alla morte del suo titolare, nonché le poche pronunce che ci sono state in materia, si rende necessaria una breve introduzione sul concetto di «patrimonio digitale». Tale categoria comprende una vasta gamma di elementi: dalle e-mail e file multimediali agli account sui social media, passando per i post connessi a questi ultimi, le chat e altri contenuti memorizzati su supporti fisici o virtuali, come il cloud.

In prima battuta è bene tentare di chiarire se, e in quali limiti, le voci appena citate possano considerarsi appartenenti alla categoria di «beni» o di «rapporti» in accezione giuridica e, di conseguenza, idonei a comporre un patrimonio propriamente detto. La nozione di «bene» è tradizionalmente definita come «cosa che può formare oggetto di diritti». È ormai superata da lungo tempo la questione se la categoria in parola coincidesse con le sole cose materiali. L’ordinamento contempla infatti numerosi esempi di cose prive di materialità sulle quali possono insistere diritti soggettivi patrimoniali e di altra natura: dal tipico ambito di protezione della proprietà intellettuale e industriale (opera dell’ingegno, marchio, brevetto, invenzione, modello, etc), ai beni culturali immateriali (in forza principalmente del riconoscimento effettuato dall’art. 7-bis del d.lgs. n. 42/2004), alle onde e frequenze radio/televisive, fino ai dati personali (alla cui tutela tende il ben noto florilegio di normative nazionali e comunitarie).

Va segnalato in proposito, e ai fini della presente trattazione, che anche un software è considerato bene dotato di tutela autonoma. Il d.lgs. n. 518 del 1992 lo ha infatti incluso nel perimetro di protezione della legge sul diritto d’autore, ciò che ha rappresentato con ogni probabilità il primo riconoscimento ordinamentale di un «bene» giuridicamente inteso in ambito digitale.

Ciò detto, torniamo brevemente all’elenco esemplificativo citato in principio, per dare uno spunto nel senso di chiarire se alcune delle voci ivi menzionate siano da considerarsi beni (seppur immateriali), rapporti giuridici, ovvero se si possa dire che esse sfuggono a entrambe le categorizzazioni, ponendo così un problema di trasmissione ereditaria ancora più a monte rispetto a quello della legittimazione attiva del successore.

Le e-mail sono costituite da messaggi di testo diretti dalla casella postale elettronica di un mittente a quella di un destinatario, per il tramite degli ISP (internet service provider) che forniscono il servizio ai due utenti. Tale servizio è regolato da contratti standard, nei quali il successore del contraente può, in generale, subentrare una volta perfezionata la vicenda successoria (con le precisazioni che si faranno infra). Si può però porre la questione se i singoli messaggi di posta elettronica inviati e ricevuti in vita dal de cuius siano suscettibili di passare in successione in quanto beni autonomi o se invece ciò possa avvenire solamente sulla scorta dell’ingresso nel rapporto contrattuale sottostante (come suggerito da G. Resta, La morte digitale, in Diritto dell’Informatica, fasc. 6, 2014, p. 907). Per le email il problema pare assai più agevolmente risolvibile in quest’ultimo senso, posto che la corrispondenza elettronica non solo manca della materialità, ma non è neppure incorporata sotto altra forma in alcuno specifico supporto fisico bensì è accessibile da qualsiasi dispositivo mediante utilizzo del proprio account di posta. Tuttavia, può essere utile indagare se le email siano o meno riconducibili alla nozione di bene a sé stante.

Sovviene intuitivo, in proposito, il parallelismo con la posta e la corrispondenza fisica. In tal caso alcune preziose indicazioni sono date dalla giurisprudenza costituzionale e dalla legge sul diritto d’autore: sotto il primo profilo, si segnala da ultimo la sentenza della Corte Costituzionale n. 170 del 2023, che, seppure da una prospettiva applicativa in ambito processual-penalistico, assimila la messaggistica digitale in ogni sua forma, e anche successivamente alla ricezione da parte del destinatario, a quella fisica sotto la definizione «ombrello» di corrispondenza rilevante per gli artt. 15 e 68 Cost., dunque suscettibili di invocazione di un diritto inviolabile alla libertà e segretezza; sul secondo versante, va considerata la particolare tutela offerta dagli artt. 93-95 del R.D. 633 del 1941 (Legge sul Diritto d’Autore), i quali dispongono che i carteggi e il materiale epistolare possono essere pubblicati solamente con il consenso dell’autore e, in alcuni casi, anche del destinatario.

Pur non essendovi indicazioni in merito a un principio generale di natura prettamente civilistica, la sistematica dell’ordinamento consentirebbe dunque di intuire la natura di beni propria delle comunicazioni costituenti corrispondenza. Nel caso delle email, naturalmente, mancando un supporto fisico sarebbe probabilmente necessario, per individuare l’oggetto delle rivendicazioni del singolo, fare riferimento ai dati che compongono e identificano il messaggio di posta elettronica. Ma la soluzione «negoziale» cui si è accennato supra permette, allo stato attuale delle cose, di evitare l’imbarazzo sull’esatta qualificazione del «bene e-mail».

Con riguardo agli account (o profili) aperti dal soggetto sui social network, ci si pone in analoga prospettiva contrattualistica: il profilo, e con esso la possibilità di accedervi e apportarvi modifiche, nonché di cancellarlo, è oggetto di un servizio offerto in virtù di un rapporto contrattuale tra il singolo e la società proprietaria della piattaforma; pertanto esso pare suscettibile di cadere in successione non in quanto «bene» digitale bensì come rapporto negoziale, con il conseguente principio di trasmissibilità mortis causa.

In parziale dissonanza con tale ricostruzione potrebbe immaginarsi l’account alla stregua di una prosecuzione digitale della persona, in quanto tale destinata a perire con la morte fisica di questa e perciò insensibile alle vicende successorie; visione, questa, che sembrerebbe corroborata dalla prassi contrattuale (di cui si dirà nel prosieguo) che contempla clausole di non trasferibilità e di «non survivorship» in forza delle quali l’account e i servizi forniti in relazione ad esso cessano al momento della morte dell’utente (Maspes, Successione digitale, trasmissione dell’account e condizioni generali di contratto predisposte dagli internet services providers). Prospettiva affascinante, che lascia tuttavia il dubbio che i providers non operino in tal senso mossi dal rispetto per l’integrità personale del defunto bensì da un interesse di carattere commerciale legato al possibile pieno ed esclusivo controllo sui dati del de cuius.

Ciò posto, per comprendere il regime giuridico dei beni e rapporti che compongono il patrimonio digitale, è fondamentale distinguerli in due gruppi:

1.     beni conservati su supporti fisici (cd. patrimonio offline);

2.     beni archiviati su servizi cloud (cd. patrimonio online).

Nel primo caso, ove vi sia un diritto reale del de cuius sul supporto fisico alla base, è generalmente condiviso che i beni digitali ivi conservati cadano in successione secondo le regole ordinarie. Tuttavia, è importante sottolineare che, per beni come foto e video - che hanno un contenuto strettamente personale - si applicano principi simili a quelli che regolano i diritti morali d'autore nell'ambito della proprietà intellettuale. Nello specifico, si prevede la devoluzione di questi beni aventi carattere personale ai congiunti più prossimi del defunto. Dunque, si ritiene che anche in questo caso si verifichi un fenomeno di vocazione soggettivamente anomala, dal momento che non si ha una devoluzione verso un qualsiasi erede ma esclusivamente in favore dei prossimi congiunti; i quali sarebbero portatori di un interesse ritenuto più meritevole di tutela: quello di salvaguardare la «identità̀ digitale» del defunto.

Nel caso dei rapporti contrattuali stipulati tra il fornitore dei servizi digitali e l’utente (che costituiscono il «patrimonio online»), come anticipato, è proprio dell’ordinamento italiano il principio generale di trasmissibilità dei rapporti contrattuali; tuttavia, anche questo conosce delle eccezioni, giacché sono intrasmissibili i rapporti c.d intuitu personae ove la qualità della parte risulta infungibile. In questo caso, in mancanza di una normativa specifica, è necessario fare riferimento alle condizioni generali di contratto. Queste ultime, redatte unilateralmente dai fornitori di servizi Internet, tendono a escludere o limitare la successione nel «patrimonio digitale», distinguendo tra la successione nel rapporto contrattuale e l’esercizio dei diritti derivanti dalla titolarità dei dati personali. Tale soluzione, che separa la successione nel contratto dalla titolarità sui dati e sui beni digitali contenuti nell’account del de cuius, privilegiando il diritto di accesso rispetto alla tradizionale proprietà, è stata confermata con l’introduzione dell’art. 2-terdecies del Codice in materia di protezione dei dati personali.

Questa prima panoramica generale sul concetto di eredità digitale è necessaria per analizzare uno dei casi più significativi a livello nazionale, ossia l’ordinanza del Tribunale di Milano 2021, che ha affrontato il problema dell’accesso ai dati personali post mortem.



2. Precedenti stranieri rilevanti

Prima di procedere all'analisi di questa complessa vicenda, è utile per la presente trattazione esaminare brevemente alcuni precedenti giurisprudenziali stranieri riguardanti l'accesso ai dati di persone defunte, con particolare attenzione ai meccanismi con cui è stato concesso l’accesso ai dati dei defunti. In particolare, segue una disamina di un caso statunitense e di uno tedesco.


2.1. Yahoo! (2005, USA)

Il primo caso in cui è emerso il problema della trasmissione post mortem dei beni digitali riguarda Justin Ellsworth, un giovane marine americano del Michigan, morto in Iraq il 13 novembre 2004. Durante il suo servizio in Iraq, Justin manteneva contatti frequenti con i genitori tramite e-mail. Dopo la sua morte, i genitori chiesero al provider di posta elettronica del figlio di poter accedere al suo account per recuperare le e-mail inviate e ricevute. Nonostante fossero i legittimi eredi del ragazzo, il provider rifiutò la richiesta, appellandosi alle condizioni generali di contratto accettate da Justin al momento della creazione dell'account. In particolare, il contratto prevedeva una clausola di «no right of survivorship and no transferability», che impediva il trasferimento dell'account e stabiliva che il servizio terminasse con la morte dell'utente. Un'altra clausola, inoltre, vietava al provider di divulgare informazioni o dati dell'account a terzi, a meno che non fosse richiesto da un'ordinanza giudiziaria. I genitori di Justin decisero quindi di intentare una causa contro il provider, sostenendo che l'account di posta elettronica fosse paragonabile a una cassetta di sicurezza e che, come i beni contenuti in una cassetta, il contenuto dell'account dovesse rientrare nella successione ereditaria.

Dopo una lunga battaglia legale, ottennero dalla Probate Court della Contea di Oakland un'ordinanza che obbligava il provider a consegnare le e-mail ricevute da Justin e salvate nell'account. Tuttavia, la Corte respinse la richiesta dei genitori di ottenere la password per accedere direttamente all'account, facendo valere la clausola di non trasferibilità prevista nel contratto.


2.2. Bundesgerichtshof (2018, Germania)

Il secondo caso riguardava una giovane di quindici anni aveva posto fine alla propria vita lanciandosi sotto un treno. La madre, di conseguenza, aveva cercato di accedere all’account del social network per verificare se vi fossero stati segnali di propositi suicidari nelle comunicazioni o nei contenuti pubblicati. Tuttavia, tale operazione risultava impossibile poiché, informato della morte dell'utente, il gestore della piattaforma aveva convertito l'account in modalità «commemorativa». In risposta, la madre citava in giudizio il gestore, sostenendo il proprio diritto in qualità di erede ad accedere ai contenuti e alle comunicazioni presenti nell’account. La domanda veniva inizialmente accolta in primo grado, ma successivamente la decisione venne ribaltata in appello. Poi, la terza sezione del BGH, ritenendo fondato il ricorso presentato dalla soccombente, annullò la sentenza di secondo grado. Il punto centrale della pronuncia del BGH risiede proprio nell'affermazione secondo cui non può essere negato agli eredi dell’utente l'accesso a tutti i contenuti, comprese le comunicazioni, conservati nell'account. Ciò in quanto il contratto di servizio con il gestore del social network, secondo il principio di universalità della successione stabilito dal § 1922 del BGB «Mit dem Tode einer Person (Erbfall) geht deren Vermögen (Erbschaft) als Ganzes auf eine oder mehrere andere Personen (Erben) über», si trasmette integralmente agli eredi alla morte del titolare, con il conseguente subentro degli stessi nel contratto.

Per giugnere a tale esito sono state affrontate diverse problematiche, tra cui: «a) l'efficacia e l’opponibilità agli eredi delle clausole contrattuali che prevedono il blocco dell'account o la distruzione dei contenuti in caso di morte dell'utente; b) la natura intuitus personae o meno del contratto di servizio con il gestore della piattaforma; c) l'estensione della successione mortis causa anche a interessi personali non patrimoniali; d) l’incidenza della normativa europea sulla protezione dei dati personali, anche in relazione alla tutela dei soggetti terzi che avevano scambiato comunicazioni con l’utente deceduto». (S. Delle Monache, 2020).

Anzitutto, per quanto riguarda la prima questione ossia le clausole che impediscono l'accesso ai contenuti digitali dopo la morte dell'utente, la Corte ha ritenuto che esse vadano valutate alla luce delle norme sulle condizioni generali di contratto, nel contesto del subentro degli eredi nel rapporto. Quanto contratto relativamente all'uso dell'account, infatti, non configuravano un'ipotesi di intrasmissibilità volontaria del contratto; nemmeno la clausola che prevedeva la modalità «commemorativa» in caso di morte dell'utente poteva ritenersi parte integrante del contratto, ai sensi del § 305 Abs. II BGB. I genitori della defunta, quindi, in qualità di eredi e nuovi soggetti contrattuali, avevano il diritto di sottoporre le clausole a un controllo di validità, ai sensi della disciplina codicistica sulla verifica delle condizioni generali di contratto. Proprio ai sensi del § 307 Abs. II BGB, si deve considerare abusiva e quindi inefficace una clausola che comporti un «ingiustificato svantaggio» per il non predisponente, soprattutto laddove limiti i diritti essenziali derivanti dal contratto o comprometta la realizzazione dello scopo del contratto stesso:


« (2) Eine unangemessene Benachteiligung ist im Zweifel anzunehmen, wenn eine Bestimmung 

  1. mit wesentlichen Grundgedanken der gesetzlichen Regelung, von der abgewichen wird, nicht zu vereinbaren ist oder

  2. wesentliche Rechte oder Pflichten, die sich aus der Natur des Vertrags ergeben, so einschränkt, dass die Erreichung des Vertragszwecks gefährdet ist».


Di conseguenza, la clausola che prevedeva il passaggio dell'account alla modalità «commemorativa» è stata dichiarata abusiva.

Successivamente, il BGH ha esaminato la natura del contratto stipulato tra l'utente e il gestore della piattaforma, escludendo che si trattasse di un contratto strettamente personale, intrasmissibile agli eredi. La natura non strettamente personale si desumeva dal fatto che il servizio, fornito dal gestore, era standardizzato e indipendente dalla morte dell’utente. Per l'appunto, in quanto prestazione puramente tecnica legata all’account, quella di rendere disponibili i contenuti in rete e in quanto obbligazione riferita solo all’account, essa non avrebbe interferito sui diritti della personalità degli utenti terzi.

Pertanto secondo la Corte tedesca, l’accesso all’account doveva essere garantito agli eredi, senza distinguere tra contenuti patrimoniali e non patrimoniali, poiché tale distinzione non sarebbe stata giuridicamente rilevante in sede successoria.

Infine, in materia di protezione dei dati personali, il BGH ha applicato il regolamento europeo n. 679/2016 (GDPR), facendo riferimento all’art. 6, comma 1 lett. f), che legittima il trattamento dei dati personali quando necessario per il perseguimento di un legittimo interesse del titolare o di terzi. In questo caso, si è operato un bilanciamento tra il diritto alla riservatezza dei «partner di comunicazione» dell’utente deceduto e il diritto degli eredi di accedere all’account, ritenendo prevalente il perseguimento di quest’ultimo interesse.

 


3. Trib. Milano, sez. I, ord. 10 febbraio 2021.

Venendo alla vicenda italiana, nel 2021, un giovane chef perse tragicamente la vita in un incidente stradale, e il suo smartphone venne distrutto. I genitori del ragazzo, per onorare la memoria del figlio, tentarono di recuperare foto, video e altri dati personali conservati sul sistema di sincronizzazione online di Apple, conosciuto come iCloud. La loro iniziale richiesta ad Apple si basava su un interesse familiare, che li spingeva a ottenere l’accesso per ragioni affettive e memoriali. Tuttavia, Apple, a fronte di tali richieste, inizialmente fornì tre possibili soluzioni per il recupero dei dati, funzionali nel caso di smarrimento delle credenziali:

  1. sblocco: una procedura che avrebbe comportato la cancellazione di tutti i dati archiviati, questo esito era contrario alle intenzioni dei genitori;

  2. eliminazione: prevedeva la chiusura definitiva dell’account Apple, seguita dalla cancellazione di tutti i dati associati;

  3. trasferimento: avrebbe permesso di consentire l'accesso ai dati mediante la reimpostazione della password e delle domande di sicurezza. Tuttavia, per questa opzione, Apple richiedeva specifici requisiti, tra cui un ordine del tribunale.


3.1. Requisiti per il trasferimento

Nel terzo caso, trasferimento, Apple subordinava l’accesso ai dati a una serie di requisiti formali, tra cui la fornitura di un ordine del tribunale. Tuttavia, l’azienda richiedeva che tale ordine fosse conforme a procedure e prerogative proprie dell’ordinamento giuridico statunitense, come quelli previsti dall’Electronic Communications Privacy Act (ECPA). Tale normativa, che disciplina l'accesso ai dati elettronici negli Stati Uniti, non trova un equivalente nel sistema giuridico italiano.


3.2. Il procedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c.

Per evitare le lungaggini delle procedure ordinarie, i legali dei genitori decisero di ricorrere al procedimento d'urgenza ex art. 700 del Codice di procedura civile. Questo strumento processuale consente di ottenere provvedimenti temporanei in presenza di un rischio imminente e irreparabile che non può essere affrontato tramite le normali vie giudiziarie. I presupposti per il ricorso d'urgenza sono:

  1. ammissibilità: il ricorso ex art. 700 è ammesso solo se non vi sono altri strumenti processuali idonei a garantire la tutela del diritto in questione;

  2. fumus boni iuris: dev'essere dimostrata l'esistenza di un diritto meritevole di protezione. In questo caso, i genitori, per ragioni familiari, avevano il diritto di accedere ai dati personali del figlio deceduto;

  3. periculum in mora: è necessario dimostrare che esiste un pericolo attuale e imminente per il diritto del ricorrente. Nel caso in esame, Apple aveva un sistema automatizzato che prevedeva la cancellazione dei dati dopo un certo periodo di inattività dell’account, il che avrebbe reso impossibile il recupero futuro dei dati.



4. L’art. 2-terdecies del codice privacy

Il Tribunale di Milano, con ordinanza del 10 febbraio 2021, ha accolto il ricorso presentato, in via cautelare, dai genitori del ragazzo deceduto ordinando, ad Apple Italia s.r.l., di «fornire assistenza nel recupero dei dati dagli account del figlio».

Il riferimento normativo principale in materia di dati è il Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR), che disciplina la protezione dei dati personali delle persone fisiche viventi.

Tuttavia, il Considerando 27 stabilisce che il GDPR non si applica ai dati personali delle persone decedute, lasciando agli Stati membri la possibilità di adottare normative specifiche per questo la decisione dei giudici milanesi trovò il suo fondamento nell’art. 2-terdecies, d.lgs. n.101/2018. La suddetta disposizione stabilisce espressamente che i diritti previsti dagli articoli 15-22 del Regolamento 679/2016 (GDPR), concernenti il diritto di accesso ai dati personali delle persone decedute, possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, da chi agisce a tutela dell'interessato, oppure per ragioni familiari meritevoli di protezione. A tal proposito, un passaggio rilevante della vicenda giudiziaria in oggetto è quello in cui il giudice ha riconosciuto l'esistenza di ragioni familiari meritevoli di protezione.

Diversamente il secondo comma di questa norma, si pone come limite e bilancia il diritto di accesso previsto dal comma precedente, infatti, precisa che l’esercizio dei diritti di cui al comma 1 non è ammesso nei casi previsti dalla legge, né quando l'interessato abbia espressamente vietato, tramite una dichiarazione scritta comunicata al titolare del trattamento. Questo è un passaggio della normativa italiana che merita particolare attenzione e che deve essere considerato dalle grandi aziende quando progettano sistemi che consentano al titolare dei dati personali di fornire il consenso, il quale deve essere libero e informato. A tal proposito, emerge dall’ordinanza del Tribunale di Roma (ord. 10 febbraio 2022) che il mero consenso verso adesione ad una clausola contrattuale, il cd. Clic per accettare le condizioni generali e i termini di servizio, non configura una manifestazione di consenso libero e volontario di autodeterminazione – quindi di divieto di accesso ai propri dati.

Il quarto comma, per di più, stabilisce chiaramente che la volontà espressa dall’interessato deve sempre essere suscettibile di revoca o modifica; la scelta effettuata al momento dell'acquisto di un servizio non implica che si debba mantenere quella stessa posizione per sempre. È possibile riconsiderare e modificare tale volontà.

Infine, il quinto comma, nel tentativo di bilanciare gli interessi in gioco, stabilisce che un eventuale divieto espresso da parte del titolare dei dati non può pregiudicare l’esercizio dei diritti patrimoniali derivanti dalla morte dell'interessato, né il diritto di difendere in giudizio i propri interessi. Questo ultimo comma dell’articolo 2-terdecies risulta di fondamentale importanza nel'ambito di questioni simili a quelle in esame, soprattutto quando si trattano beni di valore patrimoniale, come nel caso delle criptovalute, a differenza dei beni con semplice valore affettivo, come foto o video.

L’ultimo comma stabilisce un chiaro limite per il titolare dei diritti sui propri dati personali che intenda impedirne l'uso dopo la sua morte: tale limite consiste nell'impossibilità di compromettere i diritti patrimoniali dei successori mortis causa. Di conseguenza, qualsiasi divieto che ecceda tale limite sarà generalmente inefficace nei confronti dei successori e, se inserito in un contratto, sarà considerato nullo per violazione della norma imperativa introdotta dallo stesso comma. In particolare, alla luce di quanto esposto poc’anzi, una clausola contrattuale che preveda l'intrasmissibilità del rapporto o che ostacoli l'accesso all'account per il recupero dei dati sarà invalida ogniqualvolta violi le disposizioni di quest’ultimo comma.



5. Problema della legittimazione «iure proprio» o «iure successionis»

Un aspetto centrale riguarda la natura dei diritti che possono essere esercitati: iure proprio (in nome di un proprio interesse) o iure successionis (in qualità di erede del de cuius). Il provvedimento non chiarisce espressamente quale sia la natura di tali prerogative, ma l'interpretazione più condivisa sembra propendere per una legittimazione iure proprio, dato il carattere personale del diritto alla privacy e l’ampia schiera di soggetti legittimati.  In particolare, il Tribunale ha ritenuto che l'accesso ai dati digitali del defunto non costituisca un diritto ereditario in senso tradizionale, ma rappresenti una prerogativa autonoma degli eredi, fondata su esigenze affettive e sul diritto alla memoria familiare. Questo orientamento si collega all’art. 2-terdecies del d.lgs. 101/2018, che riconosce a determinati soggetti il diritto di esercitare certi diritti previsti dal GDPR.

Questa impostazione si differenzia nettamente dalla sentenza del Bundesgerichtshof tedesco del 12 luglio 2018, che aveva invece ricondotto l’accesso agli account digitali nell’ambito della successione mortis causa, riconoscendo agli eredi il diritto di subentrare nei contratti stipulati dal de cuius con i fornitori di servizi digitali. Al contrario, il Tribunale di Milano ha affermato che gli eredi non subentrano automaticamente nei rapporti contrattuali del defunto, ma esercitano un diritto autonomo di accesso ai dati personali, che può esser legato a ragioni famigliari meritevoli di tutela.

Un aspetto rilevante della decisione è il riconoscimento del limite alle clausole contrattuali che impediscono la trasmissione degli account digitali. Il Tribunale ha stabilito che tali clausole non possono prevalere sui diritti degli eredi, specialmente quando esistano ragioni familiari meritevoli di tutela, come previsto dalla normativa italiana.

 

 



Bibliografia

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  • S. Delle Monache, Successione mortis causa e patrimonio digitale, in Nuova giur. civ. comm., 2/2020, pp. 460 ss.

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  • G. Resta, La morte digitale, in Id., Dignità, persone e mercati, Torino, 2014, 375 ss.

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  • Trib. Milano, sez. I, ord. 10 febbraio 2021.

  • Trib. Roma, sez. VIII, ord. 10 febbraio 2022.

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